Articolo di Carmelo Riccotti La Rocca
Foto di Michele Mililli
“Siamo Paola, Abdul, Michele, Mamy, Patrizia e tanti altri braccianti invisibili, zappatori dimenticati e raccoglitori derelitti della frutta e della verdura che trovate sulle vostre tavole. Il nostro sudore è uno degli ingredienti della vostra dieta giornaliera. Ogni mattina ci alziamo all’alba, ci spacchiamo la schiena nei campi per tutto il giorno e torniamo la notte a dormire nei nostri tuguri, nelle nostre baracche e nei casolari fatiscenti”.
Inizia così la presentazione di una campagna per raccolta fondi promossa da alcuni lavoratori del foggiano per dare sostegno ai braccianti agricoli, molti finiti sotto la spada di Damocle del caporalato. «Portiamo il cibo nelle tavole ma abbiamo fame». Questo il titolo dato alla campagna creata su Gofundme che ha già raggiunto l’importante cifra di 95 mila euro. L’obiettivo è quello di portare beni di necessità ai lavoratori, italiani e stranieri, chiusi nei ghetti e costretti a vivere una condizione di isolamento.
Erano invisibili prima e lo sono ancora di più adesso, con l’aggiunta che l’emergenza sanitaria in corso li espone ad un rischio altissimo. Un solo contagiato condannerebbe centinaia di altre persone. Dalla piana di Gioia Tauro alla fascia trasformata del ragusano, migliaia di lavoratori vivono ammassati all’interno di vere e proprie catapecchie, uomini e donne che il decreto Bossi-Fini prima e i decreti Sicurezza dopo, hanno condannato all’invisibilità. Tanti continuano a lavorare, in nero, senza dispositivi di protezione, altri invece sono stati lasciati a casa e, questo, per una serie di fattori tra i quali: il blocco di alcuni settori dell’agricoltura, la paura dei caporali di ammassare diverse persone all’interno di un’auto, quindi di essere scoperti, o la preoccupazione dei datori di lavoro per i controlli serrati effettuati dalle forze dell’ordine anche con l’utilizzo di elicotteri.
Quasi nessuno ha l’auto e i centri abitati distano chilometri dalle baraccopoli, però adesso nemmeno i caporali, che generalmente, dietro pagamento, li accompagnano per le commissioni, si assumono la responsabilità di farlo. “La situazione – spiega Vincenzo La Monica, responsabile Immigrazione della Caritas di Ragusa – è davvero drammatica”. Vincenzo segue da anni le tante famiglie straniere che si sono sistemate nella fascia trasformata del ragusano. La Caritas ha aperto un presidio a Marina di Acate, piccolissima frazione marinara tra Vittoria e Gela, dove ogni settimana assiste almeno 50 famiglie. In queste zone lavorano migliaia di persone, soprattutto di origine romena e magrebina. Solo a Marina di Acate (piccolissimo borgo) in quattro anni la Caritas ha censito circa 2mila lavoratori stranieri, ma i numeri sono sicuramente molto più alti. Secondo un report pubblicato nel 2018 dalla diocesi di Ragusa, in quella zona, un’azienda agricola su due utilizza lavoratori in modo illegale e paga gli operai con paghe comprese tra i 2,5 e i 3 euro l’ora.
Rispetto ad altre zone del Paese, dove il lavoro nelle campagne ha soprattutto caratteristiche stagionali, nel Ragusano il fenomeno del caporalato è più strutturale: ogni anno, infatti, nelle serre ci sono due o tre campagne produttive per le quali servono agricoltori attivi per almeno 250 giorni all’anno. È per questo motivo che da queste parti sono arrivate tantissime persone dalla Romania, dalla Tunisia e dal Marocco. Rispetto ad altre zone d’Italia, cambia la figura del caporale che nel ragusano ha caratteristiche più sfumate, un ruolo che nella maggior parte dei casi è interpretato dal Caposquadra.
Oggi il presidio della Caritas è chiuso per evitare assembramenti, ma Vincenzo e i volontari raggiungono quelle zone almeno due volte a settimana per portare assistenza. “Manca acqua potabile e acqua corrente – dice Vincenzo – tanti minori avrebbero bisogno di essere visti da un pediatra, siamo di fronte ad una situazione davvero molto critica”
In questi giorni in Italia si discute sulla necessità di aprire ai flussi per riportare gli stranieri nelle campagne. “C’è bisogno di manodopera” – ha spiegato più volte il ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova – che teorizza un reclutamento di massa dei migranti.
“Ministra Teresa Bellanova, ciò che manca nella filiera agricola sono i diritti e «Uguale lavoro Uguale salario» per tutti i lavoratori della terra, indipendentemente dalla loro provenienza geografica. Rimetta gli stivali da bracciante e venga ad ascoltarci nel fango della miseria”. È la risposta di Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’USB e simbolo della lotta al caporalato che ha invece chiesto al governo un atto di coraggio: eliminare i ghetti per mettere i lavoratori al sicuro e dargli dignità regolarizzando tutti quelli che al momento non hanno documenti. Sarebbe un modo per farli uscire dall’invisibilità, questo potrebbe essere il momento del riscatto.
Secondo Michele Mililli, responsabile del coordinamento lavoratori agricoli dell’USB Ragusa, serve un piano abitativo per centinaia di famiglie di lavoratori agricoli, bisogna adibire a questo scopo tutte le strutture comunali e provinciali in disuso, bisogna costruire un piano comunale per garantire affitti calmierati, permettendo alle famiglie dei lavoratori di vivere in ambienti dove almeno ci siano l’acqua e la luce. Ad oggi ci sono migliaia di nuclei familiari che vivono all’interno dei magazzini delle aziende per le quali lavorano, vere e proprie catapecchie, con i bagni che generalmente si trovano all’esterno e sono delle latrine. Gli alloggi vengono concessi in cambio di somme esorbitanti se paragonate allo stato in cui si trovano: alcuni arrivano a pagare anche 400 euro di affitto. Senza acqua e luce, confort che hanno un costo a parte, decurtato direttamente dal salario.
Che senso ha impiegare migliaia di nuovi lavoratori stranieri se non si riesce a dare dignità a quelli che già ci sono e che sono condannati all’isolamento? Assumere nuovi lavoratori con contratti precari significherebbe darli ancora in pasto ai caporali. Tanti dei lavoratori già impiegati in agricoltura non potranno beneficiare nemmeno delle misure previste dal decreto “Cura Italia” perché, pur lavorando tutti i giorni, sulla carta, colpa di lavoratori sfruttatori e inadempienti, non possono dimostrare di aver raggiunto la soglia delle 50 giornate lavorative per poter accedere al bonus di 600 euro.Prima di cercare altri lavoratori, allora, occorrerebbe quindi censire quelli che già ci sono ma vivono nell’invisibilità, metterli al sicuro dal virus e dai caporali e dargli finalmente dignità.
Il caporalato è un virus straconosciuto, lunga e libera vita a queste persone finite in Italia con le trappole.
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