BLACK LIVES MATTER – LAFAYETTE SQUARE: LA MARCIA DI WASHINGTON DC

di Stefano Villani

La mattina del 25 maggio di quest’anno una giovane donna bianca portava a passeggio il suo cane a Central Park a New York. Arrivata in un’area isolata, l’ha liberato dal guinzaglio per lasciarlo correre libero. Si trattava però di una zona del parco riservata al birdwatching dove è espressamente proibito tenere i cani liberi e un African-American, che era lì per l’appunto a osservare gli uccelli, glielo ha fatto notare chiedendole di rimetterlo al guinzaglio. La signora, in preda a una specie di crisi di nervi, non ha esitato a prendere il telefono e a chiamare la polizia dicendo che un afro-americano la stava minacciando mettendo a rischio la sua vita. Mentiva sapendo di mentire e nemmeno il fatto che il suo interlocutore, che per tutto l’alterco aveva mantenuto la calma parlando con un tono di voce tranquillo, la stesse filmando con il suo cellulare l’ha fatta desistere da questa calunnia. Il video, postato su Twitter dalla sorella dell’uomo è diventato rapidamente virale. Lo stesso giorno a Minneapolis, a quasi 2000 km da New York, in una delle città più progressiste degli Stati Uniti, il brutale assassino da parte della polizia dell’African-American George Floyd ha mostrato il rischio reale e concreto che l’uomo di Central Park ha corso nel cercare (pacatamente, peraltro) di far rispettare una norma alla donna che la stava violando. Il signore di Central Park è un intellettuale laureatosi ad Harvard, scrittore e editor della Marvel Comics e ha saputo gestire la situazione in maniera esemplare. Ma sapeva bene il rischio che correva, lui, un uomo nero accusato di minacciare una donna bianca sola. Una mossa falsa o una frase sbagliata e lui stesso avrebbe facilmente potuto trovarsi a terra con un ginocchio sul collo come George Floyd, ucciso per una banconota falsa da 20 dollari con cui aveva comprato un pacchetto di sigarette.

Entrambi gli episodi, quello drammatico di Minneapolis e quello di New York, sono avvenuti sullo sfondo della pandemia che negli Stati Uniti, per ovvie ragioni di classe, ha particolarmente colpito la comunità nera. Gli americani neri rappresentano il 13% della popolazione del paese ma metà dei malati e il 60% delle morti di covid-19 sono African-Americans.  La crisi causata dalla pandemia ha fatto alzare in maniera drammatica il tasso di disoccupazione dei neri americani lasciando la metà di loro senza lavoro. 

L’omicidio di Floyd è stato il detonatore di un grande movimento di protesta che, proprio per il contesto in cui è avvenuto, si è manifestato con un’esplosione di rabbia che da Minneapolis si è estesa a tutto il paese per denunciare il razzismo sistemico della società americana e la brutalità della polizia.

Io vivo nei suburbia di Washington DC ormai da dodici anni. Essendo quella americana una società ancora largamente segregata il posto dove vivo è composto in maggioranza di bianchi con livelli di benessere e di ricchezza altissimi. Io stesso in questi anni posso dire di avere solo un paio di amici neri. A 20 minuti da casa mia, nei quartieri neri delle contee a nord-est e della parte sud-est della città, la situazione è ben diversa con livelli di povertà da terzo mondo. Nella mia area l’aspettativa di vita è di 92 anni. A mezz’ora di macchina da casa mia, a Barry Farms, l’aspettativa di vita è di 63 anni. La mia casa è, come tutte quella della strada dove vivo, senza cancelli, con un giardino aperto, e con porte di vetro, mentre, a poche stazioni di metropolitana, si concentrano la quasi totalità degli omicidi di quest’area (166 solo nel 2019).  In una situazione di questo tipo, che è costantemente sotto gli occhi di tutti, quello che sorprende non sono tanto i pochi saccheggi che sono avvenuti all’inizio delle proteste, quanto il fatto che non siano più estesi. Come ha messo in evidenza recentemente in un suo bell’articolo Mario Del Pero, probabilmente il più acuto americanista italiano, quella della democrazia americana è una storia di violenza razziale, di schiavitù, di segregazione, di discriminazione. Giova forse ricordare che quando nel 1935, la Germania nazista passò la “legge sulla cittadinanza del Reich” e quella la “per la protezione del sangue e dell’onore tedesco” si ispirò largamente alla legislazione razziale degli Stati Uniti: su questo ha scritto un libro importante lo storico James Q. Whitman che ha messo in evidenza come alcune delle leggi segregazioniste in vigore nell’America di Roosevelt venissero considerate troppo brutali persino dagli esperti di diritto tedeschi che studiavano il modello americano per importarlo nella Germania di Hitler. E la storia delle leggi segregazioniste non è una storia lontana: Ruby Bridges, la prima bambina afroamericana a desegregare le scuole elementari di New Orleans nel 1960, è una signora di sessantacinque anni. I compagni di classe bianchi che rifiutarono di andarono a scuola con lei hanno, ovviamente, la stessa età. 

Ora non vi sono più leggi apertamente razziste, ma, in un paese che ha la più larga popolazione carceraria del mondo, un ragazzo nero su tre ha buone prospettive di essere arrestato nella sua vita, alimentando con una nuova schiavitù quello che può veramente definirsi un complesso industriale-carcerario (stando a quanto a suo tempo dichiarò lo stesso Obama un quarto dei detenuti del mondo è nelle carceri di questo paese che ha solo il 5% della popolazione mondiale). 

Anche a Washington, dove, nonostante la politica brutale di gentrificazione in atto da tempo, la popolazione nera è ancora al 47%, ci sono state grandiose manifestazioni. Donald Trump, dopo aver infiammato per giorni il suo elettorato invocando legge e ordine, il 31 maggio ha fatto sgomberare la piazza antistante alla Casa Bianca per farsi una foto con la Bibbia di fronte alla chiesa episcopale di St. John (di fatto una specie di cappella per i presidenti statunitensi).  Questa mossa di propaganda, fatta per lusingare il suo elettorato, ha suscitato l’indignazione dei leaders religiosi più rispettabili del paese e ha portato alla grandiosa manifestazione di domenica scorsa, in cui per tutto il giorno e la notte, Washington è stata attraversata da cortei, marce, sit-in, canti e balli. E dove la sindaca Muriel Bower, una apparatchik del partito Democratico che all’inizio delle proteste ha fatto alcuni gravi errori che hanno contribuito a infiammare la situazione, con uno straordinario e intelligentissimo colpo di teatro ha dedicato a “Black Lives Matter” lo spazio antistante alla chiesa facendo dipingere questo slogan a caratteri cubitali nella strada che conduce alla Casa Bianca. 

Sia questa sia quelle che l’hanno preceduta, erano manifestazioni del tutto spontanee (e disorganizzate) dove la quasi totalità dei partecipanti è giovane o giovanissima e dove, significativamente, la maggioranza non è bianca. Gli slogans chiedono di levare soldi alla polizia o addirittura di abolirla: in un paese dove un terzo delle persone uccise dalla polizia sono neri, la brutalità della polizia è uno dei pilastri del razzismo sistemico del paese. 

La maggior parte dei manifestanti porta le mascherine per impedire il diffondersi del contagio e il fatto che nonostante il coronavirus così tanta gente sia disposta a scendere in piazza è di per se stesso un dato politico enorme.

Anche nella zona privilegiata dove vivo, c’è stata una grande protesta, organizzata da tre ragazze di una scuola superiore di Bethesda, senza esperienza politica. Anche qui quasi tutti giovani anche se, a differenza di Washington, in larghissima maggioranza bianchi. È stato, credo, la più grande raduno politico da sempre in questa zona di urbanizzazione relativamente recente e significativamente accanto a “No Justice no Peace” (“Senza giustizia non c’è pace”), uno degli slogans urlati più spesso è “This is what democracy looks like” (“Ecco cos’è la democrazia!) a esprimere un fortissimo desiderio di partecipazione.

Le manifestazioni hanno messo in moto una grande energia e sono, chiaramente, un momento importante di autocoscienza del paese. Ma la strada è difficile e dolorosa.  E forse, in questo processo la consapevolezza delle ambiguità è necessaria, anche per non illudersi sugli esiti che potrà avere questo grande movimento di popolo nell’immediato. Quella nelle strade e nelle piazze è un’America che, purtroppo, non trova una credibile sponda politica. In un paese dove metà delle persone non vota e l’altra metà è divisa in parti pressoché uguali tra democratici e repubblicani, Trump, con la sua spregevole retorica, mobilita un Partito Repubblicano ormai completamente nelle sue mani. Al contrario, il Partito Democratico esprimerà un candidato bianco, maschio, anziano che, per il suo percorso politico, non ha niente da dire ai giovani che manifestano e che purtroppo in larga parte, temo, diserteranno le urne. C’è poi un’ambiguità di fondo da cui io stesso per ragioni di classe sono personalmente toccato.

Queste mie note sono partite dalla donna di New York che, utilizzando il suo White privilege, ha messo a rischio la vita di un uomo che si era limitato a chiedere il rispetto delle regole del parco dove entrambi si trovavano. Non ho dubbi che quella donna, per come vestiva, per come parlava, per il suo lavoro, per il fatto stesso che portasse a spasso il suo cane la mattina a Central Park, non fosse un’elettrice di Trump ma una progressista, che aveva votato Obama e che voterà il candidato democratico, chiunque sia. Una Karen, per usare il termine che con corrosiva ironia viene utilizzato per definire proprio quel tipo di persona. La tipica persona che, a New York, avrebbe partecipato alle manifestazioni. Magari contestando la violenza dei primi saccheggi.

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