LAMPEDUSA: IL MARE BLU DELL’ACCOGLIENZA PER SPEGNERE I ROGHI DELL’ODIO

In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato 2020, cronaca delle richieste e delle speranze di chi, stanziale o nomade, vive sull’isola dell’accoglienza, al centro del Mediterraneo.

Articolo di Silvia Dizzia

Foto di Lisa Zambuto

Bruciano le barche a Lampedusa. Le carrette come definite da qualcuno. Eppure quelle barche rappresentano il passaggio, il transito, il viaggio di chi per differenti ragioni parte dal paese di origine per una meta nuova, sconosciuta. Barche che rappresentano una moltitudine di ingiustizie sociali e di diritto. Barche che mettono a confronto due contesti difficili: da una parte chi arriva nell’isola (sperando di trovare un futuro migliore) dall’altra parte gli indigeni.

 I primi costretti ad arrivare in condizioni estreme, affrontando un viaggio rischioso – famiglie con bambini, ragazzi e ragazze che non possono arrivare regolarmente in Europa perché quanto disposto dai trattati internazionali in ordine alla libera circolazione non trova applicazione (vedi l’articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo). Dall’altra gli isolani che pagano il prezzo di una politica disattenta a garantire uno dei diritti primari sanciti dalla Costituzione: il diritto alla salute (art. 32 della Costituzione). 

 Gli isolani chiedono da anni la costruzione di un ospedale che permetta loro di ricevere l’assistenza sanitaria come chiunque vive in luogo in cui la sanità pubblica è un diritto, purtroppo disatteso. Così, nella lotta dei diritti tra loro non contrapposti sembra apparentemente scatenarsi una lotta definita volgarmente tra poveri. 

 Un comitato locale che presenta delle istanze: apertura di un ospedale e chiusura dell’ hotspot a Lampedusa, oltre alla fine dell’utilizzo dell’isola come base militare finalizzata al controllo dei confini tra Europa e Africa. Istanze che se lette in superficie possono essere utilizzate in via del tutto strumentale dai portatori di odio: tutelare gli isolani a discapito dei “migranti”. 

 È da lì bruciano le barche, le carrette, come risposta dei portatori di odio. Però le istanze chiedono altro: sì alla tutela del diritto alla salute con la costituzione di un nosocomio che non costringa chi vive l’isola – quotidianamente – a spostarsi o lasciare l’isola per farsi curare. Le istanze chiedono la chiusura dell’hotspot rafforzata dall’idea che le persone debbano essere tutelate nel diritto alla libera circolazione; che l’isola non venga utilizzata quale luogo di respingimento verso chi parte per trovare una soluzione migliore alla propria condizione di vita. Istanze probabilmente difficile da comprendere per chi non conosce l’isola e le persone che la vivono. 

 Una delle isole più belle per i turisti, persone che da sempre conoscono il mare… il Mediterraneo. Un’isola che in qualche modo ha sempre accolto ma che in fondo non è stata mai accolta… penso a tutte le volte in cui anche nei media viene utilizzata l’espressione: “i migranti da Lampedusa verranno trasferiti in Sicilia”. Come se Lampedusa non fosse la Sicilia. O ancora, gli indigeni per fare una visita medica specialistica devono prendere un aereo per raggiungere Palermo (sempre che si riesca a trovare un volo…). 

 Ed ecco che nel momento in cui si alza la voce, c’è chi cavalca l’onda per vanificare o per delegittimare le richieste dal basso. Per sollevare un clima di odio e far partire la solita guerra dei diritti tra poveri. Per fortuna l’isola e chi la vive è altro rispetto a coloro i quali hanno dato fuoco a quelle barche. E poi chi ha compiuto quel gesto non ha fatto altro che fare male ai Lampedusani: alla loro salute, al loro ambiente e alla loro accoglienza.

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