Articolo di Giuditta Tomasone
Foto di Davide Casella
Plateali schizofrenie si sono palesate dal famigerato 13 marzo, col suo “dpcm” sino ad oggi, a quarantena inoltrata. Le prime immagini che sono sobbalzate sui media nazionali ed internazionali sono state quelle della colorita “resilienza” degli italiani, che tra un arcobaleno e una ballata cantata in coro dal balcone (per chi ce l’ha), hanno stilizzato lo spirito di popolo in cui la politica e la finanza hanno presto confidato, per tenere a badi eventuali malumori e tentativi di sovvertimento. C’è stato, inoltre, tra un cielo infinito di Modugno e una chitarra nuova di zecca per Cutugno, una frotta di (più o meno) imboscati Urbano Cairo i quali, in occasione della pandemia, hanno tirato fuori i loro quadernini dei calcoli di profitto orientati al rischio. Per molti osservatori acutamente critici, insomma, è subito apparso che, parafrasando un articolo della stampa estera, “everything is not alright”.
Tra un misto di cristianissima devozione ai decreti sfornati come pane quotidiano e una inaspettata diligenza di buona parte della popolazione italiana, è venuto fuori lo spirito poliziesco, forgiato da toni fortemente intimidatori, di molti cittadini nei confronti di chi corre, passeggia, prende aria, sciopera. La criminalizzazione del prossimo, infatti, è certamente uno degli aspetti più dibattuti e, insieme, inquietanti che sono emersi in questi “strani giorni”. Gli hashtag che “invitano” a stare a casa sono passati come strumento di solidarietà; in realtà non fanno che rimarcare quello che, fattualmente, è un ordine del dpcm. Così come le attività commerciali che smerciano beni non essenziali alla sopravvivenza umana (semmai, a quella del sistema capitalistico) come catene di abbigliamento, profumerie, gioiellerie, ecc., si sono premurate di affiggere cartelli con tanto di scuse per il procurato disagio nel non poter offrire alla clientela le loro usuali prestazioni, rimarcando (come fosse davvero la loro e non un ordine del suddetto decreto) la volontà di voler contribuire alla sconfitta del feroce nemico decidendo, a malincuore, la chiusura. Ma, si sa, ogni comune guerriero ha bisogno dei suoi eroi. Del resto, lo stesso piano comunicativo ha fatto ricorso ad un linguaggio guerresco: il Covid-19 è un nemico e gli Stati (coi suoi cittadini) sono chiamati a combatterlo.
È, pertanto, un proliferare di “uomini forti”. Dai presidenti di regione, a sindaci di paese e città. Da ministri ad ex-ministri. Dal dispiegamento degli eserciti, al rafforzamento della polizia equipaggiata come se una sommossa fosse acquattata dietro l’angolo. Elicotteri e eco lontane di droni sorvegliano tetti e teste. Cittadini impauriti e ligi alla legalità plaudono rincuorati di fronte a queste rimostranze di rigorosa salvaguardia della salute pubblica. Eppure, pareva evidente da anni che l’unica arma per frenare eventuali emergenze sanitarie sarebbe stata quella della gestione virtuosa, eguale, accessibile e rinforzata della Sanità Pubblica. Incapaci di adoperarla, anzi schivandola come da manuale neoliberista, quegli stessi “uomini forti” sono riusciti a capovolgere a loro favore la situazione di conclamata emergenza inaugurando la caccia ai disobbedienti senza autocertificazione.
Così, mentre il virus invisibile fa il suo corso per mancanza di scudi protettivi ed efficaci interventi sanitari sul resto della popolazione, resta evidente come il gran dispiegamento di armi, munizioni e dispositivi di sorveglianza dica chiaramente che se davvero si è in una guerra, il nemico è il cittadino pronto a sovvertire quello che è, a più piani, un sistema al collasso: che sia una innocente grigliata, un assalto ai supermercati, una ribellione dalle celle o un funerale.